L’estetica oggi deve essere considerata un “dovuto” al paziente: è un nostro obbligo preciso realizzare restauri con caratteristiche di forma e colore che promuovano l’ “integrazione dell’artificiale nel naturale” (Samuele Valerio).
Da questo punto di vista l’estetica è solo una conseguenza, quasi un effetto secondario, di una procedura restaurativa eseguita con tecniche e materiali allo stato dell’arte. Ad un’analoga conclusione giunge nel suo articolo Lutz (leggi: Operative dentistry: the missing clinical standards).
In contraddizione con questo approccio, è sempre più evidente come il risultato estetico per molti operatori rappresenti non una conseguenza di un piano di trattamento correttamente sviluppato, quanto piuttosto l’unico scopo dello stesso. Questa condotta va valutata con cautela, dal momento che avvicina l’odontoiatria restaurativa alla cosmesi e la allontana dalla sua natura di scienza medica. L’estetica può ovviamente rappresentare un’indicazione al trattamento: lo sancisce l’OMS nella definizione di salute dell’individuo, che non è solo assenza di patologia, ma anche stato di benessere psico-fisico. Il trattamento a finalità puramente estetiche deve quindi nascere da precise richieste del paziente che, non soddisfatto del suo sorriso, viva per questo un disagio nella sua vita di relazione.
La tua scelta è una scelta estetica; ma una scelta estetica non è una scelta. Scegliere è soprattutto una espressione rigorosa ed effettiva dell’etica
Søren Kierkegaard
Penso che in nessun caso l’odontoiatra possa arrogarsi il diritto di sollevare dubbi di natura estetica quando non direttamente interrogato. Riconoscere il paziente unico arbitro del “quantum valeat aesthetica”, oltre a rispettare i principi etici e deontologici, porta anche a riaffermare la valenza dell’individuo.
Queste affermazioni hanno importanti implicazioni cliniche: la prima riguarda il piano di trattamento. La terapia proposta dovrebbe essere, ragionevolmente, limitata alle sole richieste formulate dal paziente, nel rispetto dell’individuo, del principio di minima invasività e di un approccio “conservativo” alla professione. Il coinvolgimento di più elementi dentali, oltre a quelli indicati dal paziente, può essere giustificato solo da necessità biologiche, funzionali o tecnico-operative, ma non dalla ricerca di effetti spettacolari che nascondono nella maggior parte dei casi illustrati sulle riviste o esposti nelle conferenze riprovevoli overtreatment.
La seconda respinge l’idea di un’estetica predeterminata o conformata. Non esistono sorrisi né composizioni dentali uguali tra loro. I principi guida elencati nei decenni da svariati autori e pubblicati nella letteratura specifica devono essere intesi come una indicazione di massima, un punto di partenza per avviare una discussione critica con il paziente. A questo proposito, ma solo nel ristretto ambito sopra identificato, sono da considerare di grande valore nella comunicazione le metodiche di pre-visualizzazione del risultato, sia con tecniche analogiche che digitali.
La terza ed ultima implicazione riguarda la strategia di trattamento. La centralità dell’individuo impone anche il rispetto delle strutture e dei tessuti, che può essere garantito privilegiando metodiche prep-less (dirette o indirette) o less-prep in tutti i casi in cui questo sia possibile.